Ultimo aggiornamento: 24 aprile 2025 19:42
L’episodio “Eulogy”, quinto della settima stagione di Black Mirror, rappresenta una delle prove più intense e malinconiche della serie, mescolando tecnologia, lutto e introspezione personale. Protagonista è Philip Connory, interpretato magistralmente da Paul Giamatti, che viene contattato da un’azienda misteriosa chiamata Eulogy, specializzata nella creazione di memoriali immersivi per persone decedute. Il pretesto narrativo è la morte della sua ex fidanzata, Carol Royce, e l’invito da parte della società a ricostruire un ricordo digitale di lei attraverso i ricordi di Philip stesso.
Eulogy: una tecnologia invadente e potente
Dopo la telefonata iniziale, un drone recapita a Philip un pacco contenente un “nubbin”, un dispositivo sviluppato dalla nota Tucker Systems ,ricorrente nell’universo narrativo di Black Mirror ed ora anche nell’episodio Eulogy. Il nubbin, tramite intelligenza artificiale, guida Philip nell’esplorazione dei suoi ricordi con Carol, stimolandolo a rivivere momenti chiave della loro relazione. Questi frammenti di memoria vengono presentati sotto forma di simulazioni immersive, dove elementi sfocati o non perfettamente ricordati da Philip appaiono pixelati o indistinti, come glitch di un videogioco in fase beta.
Tre fotografie sono inizialmente la chiave di accesso: una su un tetto a Brooklyn, una festa con musica degli Stone Roses e un momento in cui Carol suona il violoncello. In ognuno di questi segmenti, Philip inizia a mettere in discussione la sua memoria e la sua percezione del passato. Il parallelismo con Eternal Sunshine of the Spotless Mind è evidente, ma in Eulogy si aggiunge una componente più giudicante: la guida della simulazione non è solo neutrale, ma analizza e critica il comportamento di Philip.
Una guida che svela più di quanto prometta
Le simulazioni si arricchiscono con ricordi più intimi e dolorosi: una vacanza, un appartamento dipinto insieme, la band di Philip, una festa di Halloween, e infine il momento più drammatico, quello che ha spezzato la relazione. In modo progressivo, il protagonista è costretto a confrontarsi con i suoi errori, la sua gelosia, il tradimento e il profondo egoismo che aveva contaminato il rapporto. La guida lo conduce attraverso una sorta di confessionale tecnologico che culmina nella rivelazione: l’intelligenza artificiale con cui ha interagito è stata modellata sulla figlia di Carol, Kelly Roy, nata dopo la loro separazione.
Kelly, pur essendo solo una costruzione digitale, gli offre una verità tagliente: Carol aveva scelto di non parlare mai di lui perché troppo doloroso, e non perché lui non fosse importante. Ma Philip, ancora una volta, è più interessato a sapere chi fosse il padre biologico di Kelly che a riflettere su ciò che ha perso. Una prova ulteriore della sua cecità emotiva.

Riscatto tardivo e memoria come redenzione
Alla fine dell’episodio, Philip ritrova una macchina fotografica usa e getta e sviluppa un rullino dimenticato. Una delle immagini lo riporta all’hotel in cui aveva avuto un’ultima discussione con Carol. Tornando virtualmente lì, scopre che Carol gli aveva lasciato un biglietto d’addio, nascosto ma conservato da un’addetta alle pulizie. In poche righe, Carol esprimeva amore, ma anche angoscia per la gravidanza e il dolore causato dal tradimento. Gli chiedeva un incontro, ma lui, accecato dalla rabbia, non aveva mai letto il messaggio.
Questa scoperta lo spinge finalmente a fare ciò che non aveva mai fatto: ascoltare. Lo fa con una registrazione in cui Carol suona il violoncello, cercando nel suono un legame perduto, tentando di recuperare non solo il suo volto nella memoria, ma anche il rispetto per ciò che avevano condiviso.
La memoria non è solo tecnologia, è responsabilità
Black Mirror non smette mai di raccontare il nostro rapporto con la tecnologia, ma in episodi come Eulogy ci ricorda anche quanto fragile e selettiva possa essere la memoria umana. In un mondo dove possiamo ricostruire un ricordo al dettaglio, dove possiamo rivivere digitalmente momenti perduti, cosa resta autentico? Philip, intrappolato nei suoi rimpianti e nell’incapacità di ascoltare davvero, è il perfetto specchio dell’io contemporaneo: connesso a tutto, ma scollegato dalle emozioni fondamentali degli altri.
Il grande tema, in fondo, non è solo la nostalgia o il lutto, ma la nostra ostinazione a voler riscrivere il passato secondo le nostre esigenze emotive. Il dolore, quando non è accettato, diventa una distorsione. Eulogy ci interroga su questo: se potessimo risentire una voce amata, torneremmo per davvero ad ascoltarla… o cercheremmo solo conferme del nostro punto di vista?
La forza narrativa dell’episodio risiede nel suo epilogo: la possibilità mai sfruttata di un ultimo incontro, di un biglietto lasciato e mai letto, è forse più dolorosa della morte stessa. Perché ci dice che la perdita non è sempre il risultato del destino, ma spesso della nostra cecità emotiva. L’ultimo atto di Philip non è solo un addio: è una lenta, tardiva redenzione, la realizzazione che il vero fallimento non è nella fine della storia con Carol, ma nell’incapacità di viverla pienamente, con empatia.
Eulogy ci fa riflettere sui grandi temi della vita: quanti messaggi abbiamo ignorato, quanti addii non abbiamo ascoltato, presi dal bisogno di difendere il nostro ego? È lì che la tecnologia non può salvare nessuno: perché certi vuoti si colmano solo con il coraggio di guardarsi dentro. E forse, per davvero, di cambiare.
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