Ultimo aggiornamento: 09 giugno 2025 09:35
C’è qualcosa di magnetico in Adolescence, la miniserie britannica che in soli quattro episodi è riuscita a scuotere non solo il panorama televisivo, ma anche il modo in cui parliamo di adolescenza, crimine e mascolinità tossica. Questa non è una serie come le altre. Non è un semplice dramma poliziesco o un racconto di formazione. È piuttosto una lente puntata sul baratro emotivo di una generazione maschile in crisi. È un’indagine narrativa che non chiede “chi è il colpevole?”, ma “perché un ragazzo uccide?”.
A rendere Adolescence così unica non è solo il tema che affronta, ma anche il modo in cui lo fa: ogni episodio è girato in un’unica, lunga inquadratura, in tempo reale. Niente tagli, niente montaggi frenetici. Solo attori in tensione costante, registi che sfidano i limiti del mezzo televisivo e un ritmo che imita la vita, con tutta la sua imprevedibilità.
Questo approccio radicale trasforma la serie in una sorta di esperienza teatrale filmata, dove ogni secondo è carico di tensione e dove l’errore non è contemplato. Alcuni episodi hanno richiesto fino a sedici riprese per essere portati a termine, rendendo la produzione un’impresa tanto tecnica quanto emotiva.
Dalla vittima al carnefice: uno specchio disturbante
Nel primo episodio di Adolescence conosciamo Jamie, un tredicenne arrestato brutalmente con una retata di polizia. L’impatto visivo ed emotivo è immediato: Jamie è spaventato, confuso, umiliato. È impossibile non provare empatia per lui. Ma Adolescence ci strappa via quella pietà nel modo più crudo: Jamie è colpevole. Le immagini di una telecamera di sicurezza mostrano senza ombra di dubbio che ha pugnalato Katie Leonard, una coetanea, ben sette volte. La scena, mostrata alla fine dell’episodio, è devastante. Non solo per la brutalità del gesto, ma per ciò che rappresenta.
Il padre di Jamie è incredulo. E con lui lo siamo anche noi spettatori, abituati a sospettare, a dubitare, a pensare che ci sia sempre un inganno dietro l’apparente evidenza. Ma qui non ci sono depistaggi: la verità è davanti ai nostri occhi. Il vero mistero è più profondo e scomodo: non “chi ha ucciso Katie?”, ma “cosa ha portato Jamie a farlo?”.
La scuola, il web e il veleno invisibile
Nel secondo episodio, la scena si sposta nella scuola di Jamie, pochi giorni dopo l’omicidio. A entrare in scena è il detective Baskam, un uomo logorato, lontano dalla figura del padre ideale. Vuole capire, scavare. Ma quello che trova è ancora più inquietante: un ambiente scolastico dove regna l’indifferenza, il sarcasmo, la noia. Gli studenti ridono del delitto, condividono meme, fanno battute. Nessuno sembra veramente sconvolto. È un’istantanea brutale di una gioventù disconnessa dalla realtà emotiva.
La chiave di volta arriva dal figlio di Baskam. Analizzando i commenti di Jamie su Instagram, scopre un linguaggio segreto, un codice composto da emoji e riferimenti alla cosiddetta “manosfera”. Dietro quegli innocenti post si nasconde un universo tossico: forum incel, ideologie Red Pill, la regola dell’80/20 che afferma che solo il 20% degli uomini “merita” l’attenzione delle donne. In questo mondo virtuale, l’odio verso le donne è giustificato, addirittura incoraggiato. È lì che Jamie si è perso.
Quando il compagno Ryan confessa di aver fornito il coltello, il puzzle inizia a comporsi. Non si tratta solo di un singolo gesto folle, ma dell’effetto accumulato di una cultura che plasma i ragazzi in silenzio, tra notti insonni e contenuti virali.
Baskam, colpito dalla consapevolezza tardiva, decide di cambiare. Vuole essere presente per suo figlio. È un momento fragile, ma importante: una piccola luce in mezzo al buio.
Adolescence: un monologo psicologico travestito da dialogo
Il terzo episodio, ambientato sette mesi dopo, è un capolavoro. Jamie è in una struttura correttiva e riceve la visita di Bryony, una psicologa. In quella stanza spoglia, tra una cioccolata calda e un sandwich ai sottaceti, si gioca la battaglia più importante: quella per la verità emotiva.
La psicologa scava con delicatezza chirurgica nella mente del ragazzo. Jamie si apre, lentamente, mostrando tutte le crepe che lo attraversano. Parla di sentirsi brutto, inadeguato. Confessa di aver visto foto di Katie circolare online e di averla avvicinata perché pensava fosse “abbastanza fragile”. Ma quando lei lo respinge con disprezzo, tutto crolla. Le sue parole, “non sono così disperata”, sono un colpo mortale al suo fragile ego.
È lì che nasce l’odio. È lì che la violenza prende forma. Jamie non è un mostro, ma un ragazzo incapace di gestire il rifiuto, cresciuto in un ecosistema che gli ha insegnato a odiare per sopravvivere. Qui arriva il punto cruciale di Adolescence. Quando, alla fine dell’episodio, morde il sandwich che detesta e ignora la cioccolata calda, il messaggio è chiaro: ha perso ogni legame con l’innocenza. È diventato ciò che teme.
La sua ultima preoccupazione? Sapere se Bryony lo apprezza. Anche nella distruzione, cerca approvazione femminile. E qui sta la verità più spaventosa di tutte.
Una famiglia distrutta
Il finale, ambientato tredici mesi dopo, si concentra su chi resta. Eddie, il padre di Jamie, vive in un limbo fatto di vandalismi, colpa e domande senza risposta. Non ha mai picchiato suo figlio, ma ha fatto peggio: ha guardato altrove. Durante le partite di calcio, nei momenti difficili, ha evitato lo sguardo. E quella mancanza ha pesato tanto quanto un pugno.
La madre è consumata dall’ansia. Entrambi si chiedono se avrebbero potuto fare qualcosa di diverso. Il computer acceso di notte, i video oscuri, le conversazioni evitate. Le colpe sono ovunque e in nessuno.
Il momento più struggente arriva quando Eddie entra nella stanza del figlio. È rimasta intatta, piena di oggetti da bambino. Si sdraia sul letto, piange, e poi raddrizza un orsetto di peluche. Quel gesto, semplice ,silenzioso,dice tutto. Dice “avrei dovuto esserci”, dice “ti ho perso”, dice “mi dispiace”.
Quell’azione non era nel copione di Adolescence . È stata un’improvvisazione dell’attore Stephen Graham, ma è diventata la scena più potente di tutta la serie. Più di mille parole.
Adolescence: una serie che fa male, ma serve
Adolescence non mostra il processo, non cerca la giustizia televisiva. Vuole solo che capiamo. Che ci fermiamo. Che guardiamo i nostri figli, i nostri studenti, i nostri amici, e ci chiediamo: cosa sta succedendo dentro di loro?
È stata criticata, certo. Alcuni l’hanno bollata come “woke” o “contro gli uomini”. Ma è il contrario. Vuole salvare anche loro. Vuole proteggere i ragazzi prima che sia troppo tardi, prima che il dolore si trasformi in rabbia, prima che la solitudine diventi violenza.
Non offre risposte facili, non costruisce eroi. È una lente puntata sul fallimento di un’intera generazione adulta, e su cosa accade quando si evita di guardare. Un’opera che unisce cinema, teatro, sociologia e denuncia, senza mai perdere il contatto con l’umanità.
Dal punto di vista tecnico, è una lezione di regia. Dal punto di vista narrativo, è un pugno nello stomaco. Ma soprattutto è una chiamata all’ascolto. Perché a volte, un orsetto raddrizzato dice molto più di un verdetto.
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